Archivio degli articoli con tag: Edmund Phelps

Cornelis van Poelenburgh, Apollo e Marsia, 1630

_ROARS, 28.12.2013, qui

Qual è il rapporto tra agende di ricerca e contesti? O tra istituzioni e processi storici e sociali? A quali condizioni possiamo parlare di “innovazione” per le Humanities? Il discorso umanistico sembra avere il vantaggio di un’estrema mobilità: può reinventare di volta in volta il proprio “oggetto” e non appare rigidamente vincolato a repertori antiquari prefissati. L’ampio dibattito internazionale sul futuro delle discipline storiche e sociali prefigura trasformazioni di rilievo mentre nuovi ambiti di ricerca dissolvono barriere disciplinari.

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_la rivista il Mulino, 12.12.2013, qui

…“Innovazione sociale” in che senso? Possiamo parlare di “innovazione sociale” in rapporto all’attività delle imprese, o a processi o tecnologie open source o ancora a piattaforme socializzanti. Non è questo il mio punto di vista. Personalmente cercherò di muovermi sul piano degli studi sulla “creatività” e di indagare la connessione tra innovazione culturale e agency…

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_L’Huffington, 31.7.2013, qui

…Quando parliamo di “bohéme”, come fanno Florida e i suoi emuli italiani, il punto di vista non può essere dettato da stringenti criteri di “valore”, economico o altro: questo il paradosso che chiameremo della creatività. I nostri innumerevoli “economisti della cultura” e giornalisti politico-culturali dovrebbero smettere di sentenziare su qualcosa di cui non hanno evidentemente cognizione, se non in senso astratto e dottrinario. Desideriamo che le nostre città accolgano comunità creative? La via per averle non è certo quella dell’obbligo di autofinanziamento (o del pareggio di bilancio) per le istituzioni culturali. Inutile fingere o addurre argomenti ipocriti…

_il manifesto, 14.1.2012, pp. 10-11; ripubblicato in: il Giornale dell’Arte_Il Giornale delle Fondazioni, 20.1.2012, qui

Proviamo a considerare l’argomento “crisi delle discipline umanistiche” negli aspetti strategici, con riferimento al caso nazionale. Semplifichiamo. In anni recenti il discorso sull’”innovazione” è stato condotto in proprio e come sequestrato da economisti e tecnici: nel momento in cui si vanno ridefinendo gli assetti universitari (le politiche, i finanziamenti, l’accesso alle professioni), le specificità dei corsi di laurea in scienze storiche e sociali sono ignorate dal progetto politico-istituzionale (e socio-culturale) che si va consolidando.

Esiste una convinzione diffusa negli ambiti non umanistici: che l’educazione umanistica, sprovvista com’è di relazione con la cultura di impresa, sia inadeguata alle economie di scala contemporanee. Con la diffusione di industrie connesse alle nuove tecnologie, la capacità di innovare si sarebbe trasferita ai saperi tecnici e risulterebbe intimamente intrecciata alla commerciabilità della “scoperta”. Nel discorso economicistico, in larga parte trasversale agli schieramenti politici, “innovazione” coincide di fatto con “grande distribuzione”. Il modello Apple, in Italia, sembra essere stato adottato acriticamente: è “vincente” l’azienda che si impone sul mercato grazie a marketing e design, pur senza avere inventato né il sistema operativo né la morfologia che pure caratterizzano i suoi prodotti. Spetterebbe dunque alla ricerca di base muoversi oltre le soglie dei laboratori per andare a collocarsi sul “mercato”.

Nel febbraio 2011, a Roma, alla Camera dei Deputati, si è tenuta una Working Capital Conference dal titolo Rifare l’Italia. Nell’occasione Francesco Profumo, al tempo rettore del Politecnico di Torino, seduto al tavolo dei relatori con, tra gli altri, Franco Bernabé, Enrico Letta, Riccardo Luna, Corrado Passera, Irene Tinagli, ha tenuto quello che oggi può apparire il discorso di programma dell’attuale ministro dell’istruzione e della ricerca scientifica. Malgrado l’enfasi posta dai coordinatori sui caratteri “non lineari” della “creatività” e il proposito di portare la discussione su aspetti “non strettamente economici”, non una parola nell’occasione è stata spesa, dai relatori, per studi e competenze esterni al mondo corporate. Il modello “innovativo” cui si è fatto riferimento pressoché esclusivo è stato quello ingegneristico-manageriale (o del design industriale). Attorno al tavolo sedevano solo esponenti del mondo dell’industria, della finanza, della politica: eppure la constatazione di una presunta, scarsa attitudine al rischio degli italiani poteva suggerire il contributo di storici e portare a punti di vista che potessero essere non solo di deprecazione. Perché non prevedere inoltre che la proposta di una Banca nazionale dell’innovazione, lanciata da Edmund Phelps, economista postkeynesiano e premio Nobel nel 2006, commentata favorevolmente dai relatori presenti al convegno, potesse beneficiare start up negli ambiti dell’editoria e del giornalismo specializzati, le tecnologie applicate alla conservazione e diffusione della conoscenza, l’impresa sociale? E’ evidente che, perché ciò accada, i corsi delle facoltà umanistiche dovrebbero essere concepiti in modo nuovo, e integrate le competenze: niente che non si possa fare con un sobrio programma di investimenti e un progetto politico di riqualificazione. L’attuale dibattito risulterebbe più ampio e corroborante se ammettesse indici sociali e culturali, non solo economici, di “innovazione”.

Da circa quattro decenni l’analisi testuale (e iconografica) ha congiunto al proprio interno metodo filologico e prospettive critico-ideologiche maturate all’interno di discipline storicamente distinte dalla storia letteraria (o artistica), quali l’etnografia, la sociologia, gli studi geopolitici, gli studi di genere, l’ecologia politica e sociale. Gli studi sull’immigrazione, la teoria postcoloniale o dell’incontro culturale, i dibattiti sulle politiche della memoria o l’industria culturale hanno prodotto formidabili ampliamenti interpretativi e discorsivi, destato nuove sensibilità, sospinto l’uso dei documenti in direzioni civili e democratiche. Si sono prodotte discontinuità tecniche e storiografiche che dobbiamo riconoscere come “innovazione” e che possiedono rilevanti implicazioni sociali. Vogliamo poi indicare un caso di innovazione linguistica e culturale di eclatante rilevanza comunitaria? La rivista canadese Adbusters ha contribuito in maniera consistente al movimento Occupy Wall Street: ha lanciato l’iniziativa, sostenuto la protesta attraverso l’edizione cartacea e soprattutto i social network, prodotto infine l’immagine-manifesto, la ballerina che volteggia sul toro beffandosi tanto della rozza violenza dell’animale quanto degli insorti in armi visibili sullo sfondo. Tutto questo è abbastanza noto perché lo si debba ripetere. Mi preme tuttavia osservare come l’efficacia mitografica della danzatrice in questione discende in misura decisiva da una riflessione critica sull’immagine pubblicitaria corrente e dalla radicale trasformazione del suo funzionamento. “Il nostro proposito è creare rivelazione: crediamo che parole appassionate, informazione adeguata e una brillante immaginazione artistica possano farlo”, ha raccontato Micah M. White, senior editor di Adbusters. “Non abbiamo detto: ‘occupate a Wall Street’. Ci siamo limitati a dire: ‘Non sarebbe fantastico se una comunità di persone occupasse Wall Street?’ Molti hanno trovato la proposta attraente e hanno occupato Wall Street di propria iniziativa”. Le istanze di democrazia partecipativa e protesta non violenta che caratterizzano il movimento sarebbero state disattese da una comunicazione autoritaria che fosse risultata imporre anziché suggerire. Un’eco estrema dell’insegnamento di Martin Luther King, cui Adbusters rimanda in editoriali recenti, è dunque proprio nella scelta di un’immagine-manifesto che non prescrive alcunché, incoraggia invece a una sorta di collaborazione immaginativa e introduce dimensioni di mutualità, scoperta e gioco nei territori abitualmente gerarchici della persuasione corporate o degli appelli all’insurrezione. Il mutamento ha inizio con la trasformazione degli atti comunicativi: questo è un primo insegnamento che possiamo trarre da #OWS.

Per Claudio Gentili, responsabile educazione di Confindustria, gli studenti dei corsi di laurea in studi umanistici acquisiscono “deboli capacità cosiddette decisionali (incertezza di fronte a un menù di scelte) e deboli capacità cosiddette diagnostiche (per esempio nella ricerca di informazioni online)”. L’affermazione merita di essere considerata, anche se (o proprio perché) confligge con nostre convinzioni profonde. Tendiamo infatti a ritenere che proprio l’esercizio assiduo dell’interpretazione (di un testo letterario o di un’opera d’arte, poniamo) consolidi attitudini idonee all’orientamento in contesti complessi. Quanto si rimprovera agli studi umanistici è a nostro parere effetto di una crisi interna, del progressivo deficit di insegnamento critico e qualificato, delle gravi inefficienze dei processi di reclutamento, della mancanza di scelte politico-istituzionali e di finanziamenti adeguati e selettivi, piuttosto che gap connaturato.

Non si tratta qui di assumere una posizione difensiva o negare deficit formativi agli attuali corsi di laurea in discipline umanistiche, al contrario: si può pensare che l’eccessiva, frammentaria eterogeneità di insegnamenti si rifletta negativamente sulla preparazione degli studenti o che il deficit di competenze contemporaneistiche conferisca agli studi storici in Italia caratteri come di vano esotismo. Occorre tuttavia comprendere che processi di avvicinamento tra cultura umanistica e cultura tecnologico-industriale possono essere tanto più proficui, oltreché rispettosi delle diverse ontologie disciplinari, se avviati al termine di percorsi di studio che richiedono discipline, cautele, metodi specifici. Il professionismo umanistico ha tempi lenti, non coincidenti con la rapidità delle rendicontazioni industriali, e ha esiti suoi propri: testi, canoni e narrazioni; comunità di ricerca, tradizioni e “scuole”; metodi e prospettive; edizioni critiche e mostre scientifiche; creazione e manutenzione di archivi. Più in generale, se interpretato nelle sue potenzialità, si accompagna a una cura dei processi che non ha equivalenti in altre attività, se non le arti; e a propositi di autoperfezionamento che, se possono risolversi in durevole beneficio collettivo sul piano simbolico, debbono riconoscersi come sprechi sul piano tout court economico.

La reputazione degli studi di un paese contribuisce al prestigio politico, diplomatico, imprenditoriale: non mi risulta tuttavia vi sia (o vi sia stata in anni recenti) sollecitudine politico-istituzionale al mantenimento della “tecnologie” alte e fini implicate, poniamo, nella costruzione di saggi destinati a imporsi e circolare. La semplice invocazione del termine “internazionale”, per quanto attiene alle discipline umanistiche, non è chiarificatrice né di per sé salvifica. Si è parte della “cultura [umanistica] internazionale”, oggi, se si è capaci di costruire prospettive “native”, né mimetiche né subalterne; e si ricompongono “storie” situate nel punto di intersezione tra “locale” e “globale”. L’adozione di metodologie o topiche mainstream, di “standard” globali non è invece in alcun modo premiata. Esistono attualmente sufficienti garanzie che l’individualità delle discipline storiche sia riconosciuta e osservata in seno agli istituti di controllo e valutazione dell’attività universitaria? Il tema della sovranità linguistica, culturale e storiografica si intreccia a elementari diritti di cittadinanza globale di cui potremo in breve risultare sprovvisti.

L’argomento della superiorità del modello tecnico-quantitativo nelle politiche dell’istruzione incontra resistenza nel “talento” del ricercatore individuale: è questo il suo nemico. Che cosa significa, ci chiediamo, la celebrazione del “talento collettivo” promossa da Richard Florida e dalla sua scuola, attiva anche nel nostro paese, cui pure recenti dichiarazioni del ministro della ricerca e dell’istruzione scientifica rimandano? La collaborazione tra ricercatore e “sistema” ha precisi limiti di sostenibilità, a parere di chi scrive: oltrepassati tali limiti l’organicità o “adattabilità” (ai contesti di mercato, a economie in costante trasformazione, alla mutevole domanda di servizi, a istanze sociali che premono, a network accademici) smette di essere inventiva per divenire mera condizione subalterna. Nelle discipline storiche e sociali la logica della scoperta non è sistemica, né può verosimilmente prescindere dall’elemento biografico e autobiografico. Dunque la posta è: correggere disfunzioni o (sul modello indiano o sino-asiatico) predisporre università che selezionano conformismo?

Affermiamolo con chiarezza. L’attitudine a innovare presuppone capacità di elaborazione critica e di proiezione immaginativa, mobilita processi linguistici e culturali, perfino (sensu lato) storiografici. Come pensiamo sia possibile proporsi di modificare un paradigma (storico, teorico, di mercato) se non per le capacità di considerare un contesto in maniera riflessiva, inserirvi intenzionalmente un’infrazione altamente funzionale, misurare la discontinuità prodotta, adoperarsi per consolidare e diffondere questa stessa attraverso un’efficace opera di distribuzione? Proprio la distanza tra economia e cultura, impresa e ricerca sembra essere tra i problemi maggiori del paese: ha costi ingenti sul piano occupazionale, produttivo e di gratificazione individuale. “Quello dell’istruzione, in Italia, è un insuccesso che si riflette sulla capacità delle persone di trovare occupazione”, afferma Fabrizio Barca, già economista Ocse e oggi ministro per la coesione territoriale, “sulla capacità dei lavoratori di interagire con il lavoro più specializzato, sulla capacità degli imprenditori di concettualizzare le proprie intuizioni produttive”.

Proviamo a considerare la questione “Death of the Humanities” nei suoi aspetti strategici, con riferimento al caso nazionale. Semplifichiamo. In anni recenti il discorso sull’”innovazione” è stato condotto in proprio e come sequestrato dagli economisti: nel momento in cui si vanno ridefinendo gli assetti universitari (le politiche, i finanziamenti, l’accesso alle professioni), corsi di laurea in humanities e accademie sono di fatto ignorati dal progetto politico-istituzionale (e socio-culturale) che si va consolidando.
“La mia preoccupazione”, scrive Martha Nussbaum in Non per profitto (2011), riflessione sulla crisi globale degli studi umanistici, “è che nel vortice della concorrenza corrano il rischio di sparire capacità essenziali per l’integrità di qualsiasi democrazia: la capacità di pensare criticamente; la capacità di trascendere i localismi per affrontare i problemi come «cittadini del mondo»; infine di raffigurarsi simpateticamente la categoria dell’altro”. Leggi il seguito di questo post »